Archivio Zeta, Eumenidi, 2013 al Pilastro di Bologna

EROS E THANATOS – Santi Sillitto commenta “Il fiato del mondo”

Non è difficile, credo, seguendo il filo rosso che unisce tra di loro, ab immemorabili, le poesie di Marcello, rintracciare il tema e il minimo comune denominatore, della sua “recherche” anche in questo suo volume “Il fiato del mondo”.

Ricerca di cosa? Della “Sinthesis”, io credo. Tra l’insondabile abisso onirico e la vita da svegli.

Le due cose, ovviamente sono inestricabili e sfido chiunque a provare a districare questi due aspetti delle nostre personalità. Ma su questo tornerò dopo.

Intanto occorre spingersi oltre (questo filo rosso) perché c’è dell’altro. C’è la sicilianità di Marcello.

La Sicilia, lo sappiamo, è terra tragica. È inevitabile per un siciliano avvertire la presenza del lutto nella luce (quella di Bufalino, quella accecante delle estati di Tomasi di Lampedusa, che finisce per schiacciare i siciliani con la sua violenza). E quante volte Marcello ha chiuso la sua poesia (vedi “Troppa luce”) gridando in faccia alla luce la sua incapacità di mantenere le promesse, di dispensare quella gioia che dovrebbe separare le tenebre, anche della nostra anima (si veda in “Privo di lacrime: “temendo che Dio / mi accechi di luce”).

Il versante tragico, dunque: cosa vengono a cercare le frotte di persone che riempiono il teatro greco di Siracusa durante gli spettacoli classici?

Sì, certo, l’Arte, lo spettacolo, il ripetersi dei rituali antichi dei nostri antenati, seduti su quelle stesse pietre, forse con gli stessi stati d’animo.

Ma non è solo quello.

Cercano, forse ancora di più, una spiegazione. Capire cosa avevano capito quegli antenati greci del tragico fatto della vita.

Perché nell’animo dei siciliani, che perpetuano quella cultura, nella fortunata, o sfortunata, alchimia del loro sangue misto, c’è già la visione del rovescio della medaglia, del doppio gioco dell’esistenza che è forse una delle spiegazioni possibili.

Marcello cerca la sintesi, o forse no, lui vuole affermare l’inestricabilità di una dualità soltanto apparente, perché i due mondi sono uno. E allora: sogno e veglia, luce e lutto, gioia e tragedia, sono tutt’uno, due impostori che si fanno beffe di noi. Ed eccoci tornati all’intestazione, alla definizione del gioco: Eros e Thanatos,

Ancora i Greci, i nostri nonni, li uniscono inestricabilmente: il culmine della creazione, l’amore che dà corpo alla vita e la sua cancellazione (vedi più sotto).

Marcello, grecosiculo (anche nel cognome) inevitabilmente, inestricabilmente preso nella ricerca della sinthesis, cerca, sminuzza, rovista, scandaglia, prova a separare ma si arrende. Perché il labirinto è la risposta, perché non c’è risposta, perché la gioia la dobbiamo cercare nel suo sfuggirci. E cos’è quel supremo momento della creazione, estasi amorosa, se non la fuga, folle, verso l’annientamento?

Ma vabbè, questa è solo la teoria di un siciliano tragico.

P.S.: Torno al sogno: quante volte ci tende l’imboscata? Quante volte perdiamo il confine tra l’accadimento nel sogno e il passo che stiamo movendo dentro la precarietà del nostro ipotetico senso? Quanto l’adesività di quel teatro notturno ci resta attaccata addosso e ce la portiamo per un tratto mentre cerchiamo di costruire un pezzo della nostra personalità e quell’adesività ci fa tanto comodo.

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