Gemma Detti, The Bridge Tea Rooms between two rooms, 2013

Gli equilibri interiori di un’Architetta

Mi spingono a parlare di Gemma Detti, architetto e pittore, il piacere e l’emozione che suscita in me la sua produzione artistica.

Non solo.

C’è infatti anche la meraviglia di scoprire come rette, angoli, spigoli possano essere trasformati da Gemma in linguaggio pittorico. C’è senza dubbio in tutti i pittori l’esigenza di porre ordine alla propria fantasia: in Picasso e De Chirico, per citare i più recenti, sono presenti triangoli, squadre, compassi. Ma lì sono oggetti inglobati in una composizione, sono raffigurazioni di elementi di nature morte. Nei dipinti di Gemma Detti assumono invece il ruolo di elementi portanti dei suoi lavori e insieme elementi strutturali del suo pensiero.

In uno scambio di corrispondenza, Gemma mi scrive: “le mie opere sono frutto della mia condizione di architetto, che mi stimola a cercare l’anima delle case come baricentro spirituale dell’uomo”.

E viene naturale chiedersi come possano opere geometriche, che in astratto dovrebbero essere fredde e prive di vibrazioni, suscitare tante emozioni. Perché un conto è ammirare le linee dell’architettura che gode di ampi volumi, di luci e ombre, un conto è che queste stesse linee si sviluppino all’interno di uno spazio ristretto. E non bastano i colori né gli accostamenti di colore a chiarire l’attrazione che suscitano.

In realtà nei quadri di Gemma sono proprio le linee rette e gli spigoli e gli angoli a spezzare la rigidità del segno geometrico, intrecciandosi tra loro, creando quelle armonie che in architettura riuscirebbero impensabili e irrealizzabili. Sono linee che demoliscono il già visto e costruiscono il nuovo, che si pongono in prospettive inusuali, che raccontano l’interno di ogni edificio, di ogni casa, chiesa, palazzo, ponte, partendo dalle mura e dai loro profili. Sono mura interpretate e riviste da Gemma il cui sguardo penetra e dissolve le materialità murarie per svelare ciò che si racchiude dietro, dentro, nel cuore pulsante degli edifici. Non sono più pietre o scheletri rivestiti di cemento armato, di ferro di piombo di intonaco o freddi mattoni impilati l’uno sopra l’altro, ma culle della vita, sorgente di pensieri e di emozioni, così come l’uomo li vive nel proprio intimo. Un intimo che non è solo ed esclusivamente individuale ma spesso collettivo, memoria di un popolo, di una città, di un viandante, che si travasa in noi che guardiamo. Così Gemma ritrae, mi si consenta di usare questo verbo più adatto a descrivere tratti di un volto umano, cattedrali, ponti, case, panorami di strade e di edifici. E come nella memoria e nell’animo umano a volte si smarriscono gli equilibri interiori, così a volte nei quadri di Gemma le case precipitano nel vuoto di un ponte che crolla. O viceversa si riempiono di nostalgia per una memoria ritrovata. E allora c’è la luna a raccogliere intorno a sé, a legare nella curva accogliente del proprio profilo, una visione notturna di un agglomerato urbano, un quartiere vissuto, una casa in cui sono nati dei sogni che oggi ci conquistano con la loro dolce malinconia. Si tratta altre volte di una centrale termoelettrica (la The Battersea Power Station, o la Tate Modern nella Londra tanto amata da Gemma) ed ecco che le ciminiere, elemento architettonico più incombente nella memoria non soltanto visiva, si innalzano verso l’infinito o troneggiano pesanti sulla facciata per affermare la loro centralità in storie ormai spente, o di un ponte (il Ponte Vecchio di Firenze) che traspare di gioia nella multicolore folla invisibile che lo frequenta. Sono ancora visioni vertiginose (Dowtown), le stesse visioni che conservano, con un brivido rosso di paura e di stupore, tutti coloro che si sono affacciati da una delle immense vedute aeree che offre New York, trasfigurate poi dalla memoria (Downsize) in un labirinto di colori vorticante verso il basso.

Se sin qui attratti dai colori, ci siamo lasciati andare alle fantastiche immagini interiori che i quadri di Gemma suscitano, ci sembrerà naturale distendere la nostra anima tesa rivolgendoci ai suoi lavori in bianco e nero, dove, a un primo superficiale sguardo, tutto appare rassegnato all’assenza del colore. Ancora qui case, ponti, chiese, qualche figura umana, uno scorcio di natura. Ma anche qui trasparenza e memoria donano agli oggetti una dimensione permeata di umanità, resa sacra e grave dal netto scandirsi delle luci e delle ombre. In particolare qui voglio parlare dei quadri “Il Passaggio” e “Winter tree” in entrambi i quali la semplicità lineare del soggetto si spalanca all’improvviso sul candore del paesaggio, attraversato nel primo da segni che solcano misteriosi la superficie innevata delle colline ed evocano l’eco di miti mai sopiti, di uomini giunti da lontano che attraversano una natura ostile. Nel secondo, alberi spogli, all’apparenza radi, si infittiscono sempre più nella prospettiva, creando insieme un intrico di rami esaltato dal candore nudo della neve. Anche qui si riaccende il mistero di un bosco irrigidito dal freddo, che nasconde nel suo bianco silenzio, grida inascoltate.

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- Questa nota critica è stata poi letta in occasione della mostra della Pittrice avvenuta a Roma il 26/01/2014)

- La Pittrice è venuta a mancare il 4/10/2014.

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