Anna Biancardi, Paternità, 2007

Paternità (I)

E questa che in me cresce / è forse la rancura
che ogni figliuolo [….] ha per il padre.
Montale

Perché ti ho abbandonato

con il capo riverso sopra il petto

come un grumo di nuvole grigie?

Portavi chiusa in te l’umiliazione

di giorni carichi di sogni ormai svaniti

in me i tremori della giovinezza

.

Ora che nel tuo sangue

più non t’è rivale la mia vita,

e sul mio viso il tempo scava i segni

della tua esistenza antica e impenetrabile,

prova a rispondere se tra l’umano istinto

e il dovere di amare

non fosse poi l’urgenza della linfa a seminare

germogli di vita a tua insaputa.

 

Uno sperma è schizzato nell’ovaia

e mi ha dato la vita.

 

Perciò ti ho abbandonato.

  1. giuliana scrive:

    La lirica, di altissima ispirazione poetica, si alza quasi in un grido di rabbioso rimpianto.
    Quel capo riverso, quel grumo di nuvole grigie suggeriscono l’immagine di un vecchio ormai umiliato dalla vita, privo di sogni, abbandonato a se stesso e dal figlio.
    Proprio la figura del giovane, prospero di vita, trepido di aspettative, lo fa sentire sconfitto.
    La “rancura” montaliana dell’esergo appartiene e al padre e al figlio.
    La vita non risparmia e ormai anche questi sente in sé i segni del tempo che scorre impietoso. Allora si fa più acuto il pensiero di ciò che ormai è irrecuperabile, cresce a dismisura il nostos. Ancora una volta ci si sente orfani di un amore che era dovuto, ma che tristemente, dolorosamente (per il figlio), quasi a caso (per l’uomo) si è risolto in un attimo di abbandono all’istinto di “seminar germogli”.
    Per fortuna quei germogli hanno fruttificato doni preziosi, versi difficilmente raggiungibili.

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