Salvador Dalì, Prematura calcificazione stazione ferroviaria,1930

Per capire il tempo

Hai rallentato i tuoi passi mentre sotto la doccia mi regalo ogni mattina questo piccolo spazio di vetri e di piastrelle lucide, nell’illusione di fuggire. Tu, appeso fuori alla parete proprio sopra lo specchio dove rivedrò il mio viso. Tu in solitudine consumi le tue ore e le mie, in attesa di uno sguardo che ti renda consapevole del tuo scandire il tempo con il rigore della goccia che scivola giù dalla pietra.  Scivola e corrode l’incavo della roccia che l’accoglie come un viso colmo di lacrime che attende baci di labbra sconosciute e amate. Baci che all’infinito mai cesseranno.

Hai rallentato il passo. Un bambino davanti allo specchio scopre il suo corpo e dimentica lo sguardo dolce della madre, dimentica i sorrisi della sorella che lo indispettiscono e lo sfidano. Vorrebbe essere un uomo. Davanti a se stesso fa roca la sua voce come quella del padre. Ha inghiottito il fiato, lo trattiene a lungo, allarga il petto, lo vorrebbe vasto come la piazza deserta su cui corre con i pattini per raggiungere il sogno d’essere adulto.

Hai rallentato il passo e mi regali ore a mia insaputa mentre sulla pelle l’acqua tiepida scorre come dita affusolate o esili fili d’erba di quand’ero adolescente. Cercavo nel cielo un segnale, anche solo una carezza e mi stendevo sui prati. Accoglievo la rugiada tra le gambe, sul petto, sulla schiena, tra i capelli. Le mie mani scorrevano alla cieca sull’erba spettinata, a tentoni cercavano la pelle calda dei sassi, la punta tenera di un germoglio che fora la terra, donando luce al buio e a me il senso del futuro senza saperlo

E quando arresto lo scroscio del torrente ed esco dalla gabbia d’acqua, eccomi come fossi giovane. Una luce mi si pone a fianco nello specchio. È lei che mi sfiora con i suoi lunghi capelli e tocca le mie tempie con le labbra. Si apre il vestito. La pelle del suo corpo ha il tepore del sasso e gocce simili alla rugiada la percorrono scendendo sino al pube e lungo le gambe. Nessun incavo le raccoglie, nessuna pietra si consuma. Le mie mani a tentoni la cercano.

Il suo nome ha il suono simile allo scrosciare limpido dell’acqua?

Alzando gli occhi al di sopra dello specchio, vedo le lancette immobili nell’illusione.

 

  1. paola pdr scrive:

    Dialogando con il tempo, il proprio tempo, che scandisce come un orologio le ore che si susseguono senza sosta.
    Il tempo nel suo scorrere pare abbia una ragione tutta sua e fuggitiva.
    Eppure, a volte si/ci concede una pausa.
    Sono quelle pause che in poco spazio ci ricordano le più intense emozioni di una vita ormai lontana che riguadagna la scena e, come per incanto, dona in un attimo l’illusione di essere ancora giovane, di aver appena vissuto quell’esperienza.
    Il corpo anch’esso ha una sua memoria e collabora nella regia.
    E tutto questo prima di tornare davanti ad uno specchio che chiamerei realtà e che rimanda un quadro effettivo, scevro da ogni illusione.
    Mi è piaciuto molto questo scritto, specie l’abbandono sull’erba – la mano che sfiora il germoglio che assaggia la luce dopo tanto buio – Queste emozioni raccontate così minuziosamente fanno intuire a chiunque l’esistenza di un importante scambio energetico tra l’uomo e la natura: ci apparteniamo l’un l’altro, anche se poi, via via questo legame a volte finisce per affievolirsi o cessare senza ritorno.

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