Donatella Pezzino, writer, articolista, storica e poetessa

Donatella Pezzino recensisce “Formule dell’Anima”

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L’amica Donatella Pezzino in questa sua recensione ha condotto  un’attenta quanto accurata analisi della mia raccolta di poesie Formule dell’Anima. 

Writer e articolista, nonché studiosa di storia siciliana e poetessa,  la Pezzino è scesa all’interno della mia anima e ha rivelato aspetti del mio pensiero non facilmente intuibili.

Ha percepito ed evidenziato con acume certi aspetti che affondano le loro radici nella notte della mia vita e ha saputo creare un lettura che suscita interesse verso  il mio mondo e verso la conoscenza di questa mia raccolta.

La ringrazio di cuore per l’attenzione ha ha prestato e per il tempo dedicatomi .

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La vicenda terrena dell’anima è continua ricerca. Di affermazione, di sublimazione; di un punto molle dal quale affiorare per ritrovare le proprie radici. Una zona di frontiera che può essere il sogno, la spiritualità, la meditazione: in altri termini, un luogo da cui lo spirito può trascendere e liberarsi. In Marcello Comitini, invece, lo specchio attraverso cui l’anima si palesa è proprio la carnalità. La sua è la poesia dei colori che feriscono gli occhi, degli umori corporei, dei profumi di pelle anonima percepiti una sola volta e mai dimenticati; queste e altre sensazioni passeggere, in lui, diventano le “formule” che consentono all’anima di dare corpo e voce ai dolori più nascosti, al disagio di una vita estranea, ad un’ancestrale e inestinguibile fame d’amore. Una dicotomia che è l’uomo stesso, inesorabilmente immerso nella realtà sensibile e, ad un tempo, segretamente ossessionato dalla sua anima. La condizione umana raccontata dal Comitini è quella, contraddittoria e lacerante, del pazzo; del reietto che non sa fare a meno della gente mentre la deride, la impaurisce, l’allontana da sé. E la cui follia sta proprio in quel voler mettere l’uomo di fronte a sé stesso, mostrandogli quanto siano subdoli e ingannevoli i sogni di cui si nutre:

E torna l’alba, torna il sole a svegliare
ombre assonnate e bave luccicanti
A volte un albero in piazza per scalare una montagna.
A volte un sudicio scalino per sedersi e piangere.

Sperduto nella città tentacolare, quest’uomo è un granello di polvere nel brulichio, parte integrante di quella stessa materia che lo condanna all’isolamento; è il manichino che guarda dall’angusta monade della sua vetrina il disperato viavai della folla e la luce del tramonto che muore, considerando l’inutilità del tutto e provandone allo stesso tempo un’acuta, struggente malinconia:

E il manichino vede dentro i loro occhi
la penosa ansietà che li trascina,
l’inconsapevole tristezza che ciascuno sia
un palpitare di scaglie dentro l’acque

Stridente è il contrasto – che nasce in Comitini dalla nostalgia della sua terra – fra la quiete consapevole della natura e l’aria asfittica di questa umanità alienata che, nell’immenso non-luogo dove tutto è rumore e cemento, cigola e si ripete come un ingranaggio qualsiasi:

Non conoscono il dio che li sorveglia
che spesso chiede sacrifici d’uomini,
che stanchi li ributta sulle strade a sera
e nella ragna dei meandri li rinsacca.

Spesso il rimpianto per la propria terra lontana, qui, è appena percepibile; non è il lamento angoscioso dell’emigrante, né la rabbia del ragazzo provinciale deluso nei suoi sogni di grandezza. Piuttosto, il rimpianto si è trasformato in amarezza esistenziale, rassegnata e sottile, come un colore smorto che resta sullo sfondo.

E fu la fuga, fu tentare il mare da una terra a un’altra,
fu sottomettere la vita alle sue onde ostili.

E’ fin troppo inevitabile, in questo contesto, perdere il contatto con i propri desideri, i propri ricordi, il proprio anelito alla felicità. La felicità, soprattutto, sembra la più illusoria delle chimere: tutta la vita non è che un lungo succedersi di disinganni. Felicità e amore sono perduti nello stesso istante in cui li si afferra.

Vidi l’amore farsi irraggiungibile
Nel sole che moriva lentamente

Il sole, la città, la natura: come da un treno in corsa, i paesaggi scorrono in simbiosi con gli stati d’animo e, come questi, cambiano continuamente. E in questo susseguirsi di scenari sempre nuovi, gli elementi e le emozioni si vivono e si contaminano reciprocamente, esprimendo in immagini efficaci e dirette l’intimo travaglio del poeta:

Ed è così che il vento incarna la sua pena

La carnalità è, allora, il mezzo per riscattare questa perenne disillusione, il varco attraverso il quale tutto ciò che lo spirito ha perduto può farsi strada e riemergere. La donna, soprattutto: questa donna che è corpo, sorriso, abbraccio lascivo, sensualità bruta. A prima vista, il Comitini amante è un gaudente; ma a ben guardare, questo suo modo di vivere l’amore nasconde un dolore profondo, un abbandono dal quale, fin da bambino, non è riuscito a difendersi e che rivive nel ricordo impietoso della madre:

Erano gli occhi come acuti spilli
e le parole cadevano pesanti

Un amore che è frutto gracile, fiore mai sbocciato; sulle labbra del bambino e nel cuore dell’uomo.

Come in un sonno odiato i nostri occhi
hanno seguito falsi simulacri
di pietà e d’amore.

O forse il solo possibile è accaduto:
mai la vita ha sospeso
il suo terribile patto col dolore.

Le anime sono universi che non riescono a toccarsi, a compenetrarsi: l’unico contatto possibile fra due esseri umani, quindi, è puramente carnale. Si possiede il corpo, nell’incapacità di possedere l’anima:

Attenderò qualcuno che ridendo mi schiaffeggi
e in un buco oscuro scarichi il mio sangue.

Non importa a chi appartenga quella pelle, quel profumo: le donne di Comitini sono ombre – seppur di carne e di sangue – evanescenti. Amori giovanili, donne disinibite o prostitute: semplicemente un corpo, disposto a concedersi senza chiedere nulla in cambio. Ed è quindi nel corpo che il poeta riversa, insieme alla passione sensuale, quella dolcezza quasi infantile sopravvissuta alle amarezze e al cinismo:

Stranita dagli orgasmi le parole
ti ronzavano in gola come mosche
- come farfalle ti dicevo allora
che suggevo alle tue labbra il soffio
come la misteriosa devozione ad una stimmate.
Erano le parole
un freddo ricucire le ferite
nenie cantate sulla bocca di una storia
d’amore terminato senza nascere.
E comparivano vaghi i miei rimorsi
i miei passi infelici lungo il muro
le solitudini in cui ti rimpiangevo
tutte le volte che tra le tue braccia
ho goduto la gioia d’essere nessuno.

Un cinismo che è più una corazza, un baluardo: dietro, c’è il cuore di un bambino che rincorre il suo aquilone, meravigliandosi che i piedi affondino ancora nella sabbia mentre tutto il resto si libra in alto. Dopotutto è qui, fra le sue antiche illusioni, che l’anima può davvero ritrovare sé stessa.

Forse negli avanzi delle nostre povere cose
forse nei ristagni del tempo tra i ricordi,
forse nei sogni che ancora ci consolano.

Donatella Pezzino

  1. Isabella scrive:

    Stupenda recensione redatta da una Donatella in grande forma. Belle le tue poesie caro Marcello. Complimenti di cuore. Isabella

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