Blake William, Il corpo di Abele trovato da Adamo ed Eva, 1826

Pieno a perdere

Per evitare fraintendimenti premetto subito che non mi sento un “poeta laureato”, e che per me poeti non sono coloro che scrivono in righe brevi con ritorni a capo per imitare i versi. Come non lo sono necessariamente i vincitori di premi di poesia pur prestigiosi. Per me poeta è “colui che non è”. Non c’è nulla di più sfuggente della definizione di Poeta, perché non c’è nulla di più mutevole nel tempo del suo strumento di comunicazione, la parola, perché non c’è nulla in natura, come lo sono i colori e le forme, che somigli alla parola. La parola, essendo la presa di possesso di una cosa, un oggetto, un sentimento, una relazione, è vincolata al persistere nell’uomo del desiderio di possedere quella cosa, al persistere delle modalità con cui quel desiderio si esprime. Ed essendo inoltre il possedere (come il suo corrispettivo gemello, il donare) un modo di relazionarsi tra gli uomini, la parola è soggetta a mille varianti: sorge quando l’uomo ha bisogno di definire la realtà; muore quando l’uomo abbandona quel particolare aspetto della realtà (non ha più bisogno di nominarla); diviene di uso raro quando la frequenza di rapportarsi a quella realtà cessa di essere costante; si trasforma quando le relazioni tra gli uomini e la realtà mutano. Questa inconsistente consistenza della parola, questa sua mutevolezza materica, questa sua duttilità di fronte alle pressioni che subisce dall’esterno, questa sua a volte svaporazione nell’aria, fanno la parola simile all’acqua (che scorra o meno, che sia stagnante o meno, non importa): l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla parola e quindi di fronte alla poesia, è esattamente quello dell’uomo di fronte all’acqua, sia che vi si immerga dentro, sia che la tocchi con un dito, sia che la assuma all’interno di se stesso. Sarebbe retorico se io adesso illustrassi questo concetto che, nella sua elementarità, dovrebbe essere chiarissimo a tutti. (Sarebbe invece interessante che qualche lettore non in perfetto accordo con quanto affermato da me, provasse a commentare quest’idea, a guardarla nelle sue diverse sfaccettature, anche solo allo scopo di dimostrarne la sua fallacia).

Questa caratteristica della parola si evidenzia quando si raffronti la poesia alle altre arti: esse traggono dalla natura la loro solidità e con questa si presentano ai nostri occhi. Esse sono “tangibili” e recano in sé, attraverso le forme,  i suoni e/o i colori, il potere di trasmettere emozioni. Anche se colui che vuole conoscere a fondo un’opera d’arte ha bisogno della parola per definirla nella sua essenza, questa parola non è parte integrante dell’opera e può mutare senza che l’opera muti.

Non è forse questo uno dei motivi per cui la poesia oggi è relegata in una nicchia? In un’epoca di esasperato individualismo, in cui ciascuno ascolta essenzialmente la propria parola e non quella degli altri, la poesia-parola muta in uno stesso momento col mutare del lettore, del livello della sua cultura, del livello della sua sensibilità. Non essendo pensabile attualmente una condivisione pubblica, ma solo una sensazione soggettiva, la poesia rimane un fatto isolato, nascosto agli occhi del “passante”. Questi peraltro non ha strumenti di conoscenza se non quelli proposti dai media. E i media disdegnano tutto ciò che è soggettivo, nel senso di espressione di un pensiero che si contrappone all’omologazione. Spesso coloro che scrivono versi cercano di farla uscire da questa nicchia esponendo il proprio corpo, mostrando sul palco impudicamente i propri sentimenti a corollario della loro poesia. La poesia viene trasformata in spettacolo, spesso pietoso, che commuove e attrae lo spettatore. Questo comportamento nasce in epoca abbastanza recente, prima dell’avvento dei media, con il surrealismo, il dadaismo, l’ermetismo. Ma è la Poesia a suscitare l’interesse o lo spettacolo dell’uomo che si mostra nel circo del “gradimento”? Per un tentativo estremo di migliore comprensione, la statua “Il discobolo” ha forse bisogno, per essere ammirata, che Mirone le si esibisca accanto? Una qualsiasi sinfonia di Beethoven deve essere eseguita dal suo compositore?

E se smettessimo di considerare la poesia un’arte e la guardassimo come un “pieno a perdere”, un fatto significante legato a un’era storica, come gli antichi graffiti che adornano certe caverne e ci raccontano il loro modo di possedere la realtà? Quegli sconosciuti autori hanno sentito il bisogno di raccontare quel che vivevano e quel che provavano, sensazioni, emozioni, paure, fantasie, bisogni, pensando certo di lasciare una traccia al futuro, una rappresentazione del loro essere uomini, un filo rosso che unisce le esperienze di allora alle esperienze di oggi.

Cosa troveremo nelle grotte dei poeti adornate dei loro graffiti?

Questo secondo me è il compito del Poeta: con i piedi affondati nel passato, con il cuore attento al presente, guardare con il cervello al futuro. E la grotta affrescata verrà prima o poi ritrovata e ammirata.

Stefano Velotti, nel suo saggio “La filosofia e le arti”, afferma di credere  “che la nozione di rappresentazione sia indispensabile per ogni opera d’arte, per il semplice motivo che non siamo disposti a rinunciare all’idea che un’opera d’arte – anche se non si esaurisce in una lista di significati – significa comunque qualcosa, che è tale se sollecita un’interpretazione, e che niente può significare o essere interpretato se non è una rappresentazione”.

Nella particolare grotta affrescata dal Poeta, che rappresentazione ammiriamo? Una parola scheletrita dal tempo, incisa su un foglio, tracciata su uno schermo di qualunque mezzo audiovisivo?

Proviamo ad entrare insieme in una grotta, poco conosciuta anche se appartenuta a un filosofo, teologo, poeta e critico letterario, in cui risaltano i “graffiti” tracciati nel 1876 dal poeta Vladimir Solov’ëv (traduzione di A.M. Ripellino):

 

Il bianco giglio alla rosa
alla rosa scarlatta sposiamo.
Nel mistero di un sogno profetico
noi troviamo l’eterna verità.

Dite la fatidica parola!
Gettate alla svelta le perle nel calice!
Legate la nostra colomba
coi nuovi anelli del vecchio serpente.

Per il libero cuore non c’è sofferenza…
Dovrebbe temere il fuoco di Prometeo?
La pura colomba si sente libera
negli anelli di fiamma del serpe possente…

Cantate l’impeto delle burrasche,
nella tempesta furiosa troviamo la calma…
Il bianco giglio alla rosa,
alla rosa scarlatta sposiamo.

 

La poesia (che si intitola “Canzone degli Ofiti”, cioè canzone di tutti coloro che veneravano il serpente elargitore agli uomini della conoscenza del bene e del male) potrebbe sembrare incomprensibile se la guardiamo esclusivamente sotto il profilo storico. Ma se la rileggiamo (perché spesso occorre rileggere le opere a cui ci accostiamo: “quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia” dice Roland Barthes) i versi suscitano un senso di attesa,  dove l’uomo ha in sé il bianco candore del giglio e lo scarlatto della rosa, dove la libertà è minacciata.

  1. Giuliana scrive:

    Caro Marcello, dopo aver letto e riletto, così come da te auspicato, il tuo dotto “saggio” su Pieno a perdere, mi permetto di esprimere il mio semplice pensiero al riguardo. In buona parte esso collima col tuo: nella “inconsistente consistenza” della parola, nella sua evanescenza che la rende equorea, nella quasi impossibilità di dare una definizione di poeta, nel fatto che spesso la Poesia, ma io direi la non-poesia, diventi spettacolo. Rispetto tuttavia ogni punto di vista, anche quello di coloro che partecipano a questo spettacolo. Io sono fra questi e, anche se può non interessare nessuno, ci sono giunta in età tarda, spronata dai miei scolari del Laboratorio di Poesia che hanno accettato di comunicare agli altri le loro emozioni e le loro conquiste, solo se mi fossi unita a loro.Non ne sono pentita anche se raramente ho potuto presenziare alle premiazioni.
    L’arte, e per me la Poesia è arte, anzi quella che le contiene tutte, non va vissurta in solitudine (Salman Rushdie), ma condivisa.E’ verissimo che non tutti sono in grado di apprezzarla, ma ciò non le toglie dignità, nè forza nè bellezza. Mi parli della splendida poesia di Solov’ev. Come potremmo ancora godere della sua levità se non ce l’avesse donata, sia pure in una grotta? E che mi dici degli altri grandi del passato e di alcuni grandi contemporanei? C erto Mirone o altri artisti non devono apparire accanto alle loro opere che sanno “parlare” da sole. Ma sei sicuro che tutti sappiano ascoltare la loro voce? La parola-poesia, i quadri la musica ecc mutano perchè muta ad ogni istante il nostro sguardo di fruitori. Io, come te, sono abituata a “rileggere”, anche a distanza di anni e non ho mai provato le stesse sensazioni della volta precedente. Per fortuna lo sguardo si allarga e per ora ancora si arricchisce. Grazie comunque, Marcello, perchè stimoli gli altri a riflettere. Vale.
    Giuliana

    • La caverna, cara Giuliana, in cui ritieni che io mi sia chiuso o nella quale credi che vorrei chiudere i poeti (parlo sempre ed esclusivamente dei veri poeti, cioè di coloro che nella caverna segnano o hanno segnato i loro graffiti) è la loro anima, il segreto della loro sensibilità, l’intimo bisogno che hanno di lanciare al futuro i loro segnali, senza la necessità di un plauso immediato di una platea. Che poi ciascuno vada a mostrare il proprio talento in uno spettacolo alla ricerca del plauso, questa è una faccenda che riguarda da una parte l’individuo interessato, dall’altra la storia. Non me, che tuttavia non posso privarmi dall’esprimere al riguardo la mia opinione .
      Certo, ogni poeta desidera che il proprio pensiero venga diffuso e conosciuto. Ma c’è una bella differenza tra far conoscere ed essere riconosciuto. E la differenza sta nel valore del suo pensiero e nella logica sequenza temporale fra le due azioni: credo molto infelice, perché velleitario, quel verseggiatore (mi astengo dall’usare l’appellativo di poeta) che desideri essere riconosciuto prima di far conoscere, se non addirittura di prescindere dal pensiero.
      Tutti tendiamo a mostrarci, me compreso che non ho mai partecipato a un concorso ma che mi metto in vetrina su facebook. Ma mostrarsi non vuol dire cercare il plauso o il riconoscimento, quanto piuttosto esporre agli altri la propria mercanzia, il proprio talento, il frutto del proprio studio e della propria fatica. Saranno gli altri, senza che lui lo chieda o “si metta avanti”, a conoscerlo e poi, se il suo pensiero ha un certo valore, a riconoscerlo.
      Ma riconoscere cosa? Il pensiero. Perché secondo me l’arte (che come dicevo sopra è frutto di volontà, di studio e di fatica) non è la necessità degli artisti di “comunicare agli altri le loro emozioni e le loro conquiste” (stilistiche?) ma è una sfida che l’artista lancia al lettore, alla sua immaginazione, mettendo dentro forze dure come il diamante che, lottando l’una contro l’altra, facciano scoccare nella mente una scintilla.
      Quello che tu chiami donare (donare e condividere oggi sono parole molto abusate) da parte dei grandi poeti del passato altro non è che il frutto del loro pensiero, prodotto nel chiuso della loro caverna.

      Ecco il senso di ciò che dicevo di quella tanto vituperata caverna. Ma forse meglio di me lo dicono due versi del Preludio di Wordsworth : “the marble index of a mind for ever / voyaging through strange seas of Tought, alone” (l’immagine marmorea di una mente / per sempre in viaggio su mari strani di Pensiero, sola). Ecco l’immagine del poeta nella sua caverna: sola.

  2. Gabriella Barattia scrive:

    Ho sempre pensato alla parola come una cosa con caratteristiche fisiche, come il suono, la musicalità, che nella poesia risaltano più che nella prosa. Ha anche una forma tangibile, grafica, che risulta più evidente in alcuni modelli di scrittura.
    Mi sembra che tu le attribuisca esclusivamente le caratteristiche della rappresentazione simbolica, della pregnanza del significato, ne fai una cosa alta che contiene in sé l’essenza della cose, astratte e concrete. D’altra parte la parola è data all’uomo per esprimere l’essenza profonda dell’esistenza : ” in principio era il Verbo”. I filosofi medievali l’hanno studiata a fondo nelle Grammatiche speculative.
    Però… Però ha anche degli aspetti minori, ma non per questo privi di importanza, soprattutto l’aspetto della sonorità , della musicalità che in poesia ti fanno prediligere una parola rispetto a un’altra perché possiede delle assonanze, dei richiami”fonici” che la rendono più consona alla composizione

    Hai proposto un argomento interessante, che offre spunti per considerazioni sulla forma letteraria più alta, la poesia appunto, che richiede capacità di sintesi e di astrazione, una conoscenza lessicale profonda, oltre a una vasta cultura letteraria che spazi nelle varie epoche e nei più diversi luoghi.

  3. giuliana scrive:

    Sapevo che avrei stimolato qualcuno: e che Qualcuno!
    Dalla mia caverna o grotta ho graffiato qualche verso

    Danzami attorno

    Danzami attorno, Parola,
    sciogli i veli fluttuanti,
    ponimi sul capo ghirlande
    di glicini lilla, di miele
    cospargi i miei scritti.

    Dilavami dalle asperità,
    depura l’animo che
    ti genera, Parola,
    mia amica, scrigno dei
    sentimenti miei,

    Tu, che li plasmi e li
    trasformi in canto.
    Ed io ti renderò passione,
    t’inonderò di melodie.
    E non sarà più acuminata

    la lama che affonda
    ne’ le mie ferite,
    meno erto il cammino
    che si disegna innanzi
    qualora Tu risponderai

    alle mie preci, danze
    intrecciandomi intorno,
    di miele nutrendomi,
    nel viola della sera
    che rapida s’avanza.

  4. paola pdr scrive:

    Andando per grotte ho trovato questa iscrizione:
    “semplicemente cliccate su questo link e potrete acquistare a 0,97 centesimi di euro il mio libro di poesie
    Formule dell’Anima
    in formato e-book
    Vi aspetto!! ”
    Non ho trovato una chiave di lettura.

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