Marcello Comitini, Rubinetto d'aria, 2015

Rubinetto d’aria

Alle cinque e trenta già tutti si davano da fare uscendo dalla camera da letto e rientrandovi frettolosamente. Quando arrivò Antonio Capasso nessuno notò che portava in mano una scatoletta bianca, di cinque centimetri per ogni lato e con una levetta sulla faccia superiore che si muoveva come il braccio di una bilancia ma su due posizioni soltanto, con uno scatto, senza oscillazioni. Nessuno notò quella scatoletta. Neppure Antonio a dire il vero era stato notato: mia madre urlava assistita da due levatrici. Stavo nascendo io. Era il quattro settembre del 1704.

Sì, lo so, sono passati moltissimi anni da allora, eppure il cervello e la memoria mi funzionano egregiamente. Voi state qui davanti a me e mi guardate con l’aria malinconica di chi sta assistendo all’ultima scena di un film, un po’ dispiaciuto di dover abbandonare una storia che lo ha commosso. Vi ho chiamati io e voi siete venuti da ogni angolo del mondo con quel segreto pensiero. Ma non siamo ancora all’ultima scena, ve lo assicuro. Almeno non voi.

Dunque Antonio entrò e mostrò a mio padre un po’ disattento, la scatoletta dicendogli:

«È un rubinetto. »

«È – continuò Antonio – come un rubinetto normale che lo tocchi e ferma il flusso dell’acqua.»

Mio padre lo guardò di traverso mentre mia madre lanciava un urlo più acuto e più lungo. Sapeva le strane idee che giravano in mente ad Antonio, ma quella proprio non la capiva.

«A parte che i rubinetti sono d’ottone,  non li tocchi come vedo che fai con questo coso, e li regoli con la manopola che hanno in cima, ma da questo coso esce l’acqua? »

«No, non esce l’acqua»

«E allora a che serve? »

«Da una parte entra l’aria ed esce dall’altra parte».  E gli mostrò due fori praticati su due facce laterali opposte. E spostando l’indice dall’uno all’altro foro:

«Da qui entra e da qui esce. Ma se tocchi questa levetta – e così dicendo pigiò sulla levetta che emise un clic secco – non entra più aria. O non esce? Forse non ne entra e non ne esce. E forse non è solo aria quella che entra e esce ma tutto ciò che non si vede»

Mio padre ebbe un sorriso di compassione ma anche di affetto per quel suo tenero amico d’infanzia.

«Senti, Antonio, l’unica cosa simpatica di questo aggeggio è il tic che si sente ogni qual volta si tocca la levetta.  Lascialo qua. Glielo darò a mio figlio per giocarci, tra qualche mese. A meno che tu – e qui mio padre ebbe un tono esageratamente indulgente – non debba ancora lavorarci su.»

Antonio toccò la levetta e la rimise a posto, cioè nella posizione che permetteva all’aria e a tutto ciò che non si vedeva, di entrare e di uscire. Mia madre aveva smesso di gridare, ma adesso ero io che gridavo con gli occhi chiusi mentre mi toglievano di dosso con una spugna bagnata le ultime tracce di una recente felicità, cancellata troppo presto da una spinta verso l’ignoto, da uno scivolamento verso una luce che intuivo da un certo chiarore doloroso che mi attraversava le palpebre in mezzo alle lacrime. Mi avvolsero in una camiciola e mi consegnarono tra le braccia di mia madre.

« No, è finito, è un congegno molto semplice, non ho altro da farci» rispose Antonio, consegnando nelle mani di mio padre la scatoletta. Poi si girò e andò via con lo sguardo perduto nel vuoto e il passo silenzioso.

Non ricevetti mai quella scatoletta. La scoprii per caso un giorno, come tutte le cose dimenticate, avvolta in un velo di carta celeste, in fondo al cassetto della scrivania di mio padre. Sul velo di carta c’era scritto, con calligrafia a me sconosciuta e con un inchiostro reso marrone dal tempo:

 

«Nascere, crescere, morire…

È tutto qui il dono ricevuto?

Dimenticavo vivere ».

 

Avevo sedici anni. Non cercavo nulla, in quel cassetto. Nell’altra stanza mio padre ansimava in preda alla febbre. La casa era silenziosa. Il sole di fine settembre entrava dalle finestre insieme all’aria dolcemente fresca e disegnava sul pavimento rettangoli di luce accecante che si riverberavano su tutte le pareti. Io stavo aspettando nello studio di mio padre perché mi avevano raccomandato di non allontanarmi.. Per ingannare l’attesa rovistavo nei cassetti che mi erano stati sino ad allora interdetti. Intimorito dalla libertà che mi stavo concedendo, rovistavo per non fare rumore. C’erano nel cassetto una miniatura di mia madre da giovane, una di mio padre, il ritratto di un cane smarrito durante una gita, il disegno a matita di una casa di campagna rovinata dal tempo. E la scatoletta. La presi tra le dita e la sentii pesante, un peso che mi opprimeva il cuore e tuttavia dava la sensazione di essere qualcosa che stesse al di là di ogni corporea realtà. Spinsi quella piccola leva che emise il suo breve clic. La guardai chiedendomi a cosa servisse e nel silenzio avvertii che l’ansimare di mio padre era cessato.

«Vieni – mi disse una voce. – Coraggio».

Era Antonio, l’amico di mio padre, che mi poggiava le mani sulle spalle e mi guidava verso la camera da letto.

Mi chiedevo quale coraggio ci volesse. La conoscevo bene l’espressione di quel viso: era la stessa di due anni prima, quella che aveva mia madre quando la vidi distesa sul letto con una benda che le girava intorno al capo per trattenerle il mento. Non ci voleva coraggio, mi dissi con caparbia violenza. Ma non sapevo cosa ci volesse. Voltai le spalle al letto. Antonio mi tolse dalle mani la scatoletta che tenevo sulle palme aperte senza più pensare a lei. Uscii fuori casa a piangere.

Dopo dieci anni e tre mesi dalla morte di mio padre mi ricordai di quella giornata luminosa e terribile e anche di quella in cui toccò a mia madre lasciarmi. E mi tornò alla mente il clic che aveva preceduto ogni dolore, quello di nascere e quello di morire. Solo adesso mi ricordai di averlo già sentito tra le dita di mio padre il clic secco, nervoso, subito confuso alla sua voce che diceva piangendo è morta. Andai a quel cassetto, presi tra le dita la scatoletta e mi sedetti davanti la finestra del soggiorno a guardare il cielo. Era per me uno stupore scoprirla più pesante di come la ricordassi.. Pioveva. Mia moglie era fuori a sbrigare delle faccende. Tra le mani rigiravo da ogni parte la scatoletta, la toccavo come avevo già fatto le altre volte, come le altre volte ne seguivo gli spigoli, ne sentivo la consistenza. La carezzavo come si carezza un animaletto impagliato, con il ventre rigonfio e gli occhi di vetro che guardano nel vuoto. Antonio mi aveva spiegato che era un rubinetto d’aria.

«Entra e esce, mi aveva spiegato, l’aria entra e esce. Se tocchi la levetta, mi aveva detto, esce solo quella che è rimasta dentro ma non entra più nulla. O forse non entra e non esce. »

Misi un dito su uno dei due fori e spinsi con l’altro sulla levetta.

Il rumore della porta d’ingresso alle mie spalle coprì il suono del clic ma sotto il polpastrello sentii lo scatto. Mi chiesi per un attimo se quello scatto avesse chiuso o aperto il rubinetto d’aria. Sorrisi a me stesso della mia domanda senza senso e vidi che anche mia moglie sorrideva. Mi veniva incontro con passo svelto, quasi volando:

«Sono incinta!» – disse.

La strinsi tra le braccia. Pensai che forse avevo messo la levetta nella posizione aperta, quella in cui l’aria e tutto ciò che non si vede erano liberi di entrare e di uscire. Pensai ad Antonio che mi diceva coraggio, pensai all’ansimare di mio padre, a mia madre con la fascia che le avvolgeva il volto per trattenerle il mento, al figlio che stava per nascere, alla mia stupidità di collegare il clic alla notizia che mi aveva dato mia moglie. Ma per la prima volta riflettei che spesso avevo toccato la leva senza sapere da che parte l’aria e tutto ciò che non si vede entra e esce, da che parte stesse la morte e da che parte la vita. Durante tutti gli anni in cui ho schiacciato a caso la levetta, sono stato sempre più invaso da una sensazione di pesante ebbrezza in cui mi sembrava che la vita dovesse lottare parecchio per non soccombere.

Non conoscevo il verso della vita. Ma anche se lo avessi conosciuto, avrei lasciato la levetta dalla parte in cui l’aria e tutto ciò che non si vede entra e esce? Esce per andare dove? O quel che entra è la nascita e quel che esce è la morte? Il click della levetta non permette altro che la circolazione della vita, scandendone l’inizio e il termine!

Avevo la sensazione di riuscire a capire sempre più il senso di quelle righe scritte sul foglio che avvolgeva la scatoletta: dimenticavo vivere.

Forse sarebbe stato meglio chiuderla, quella levetta, fermare tutto ciò che non si vede, non farlo più entrare né uscire. Lasciarlo nell’eternità del non accaduto. Ma come? Come avrei potuto bloccarla per sempre se un desiderio irrefrenabile dopo la gioia della nascita di mio figlio mi spingeva a provocare lo schiocco del clic?

Vedevo nella scatoletta un sensibilissimo meccanismo che mi trascinava nel mistero della sua semplicità. Ero rimasto il ragazzo che aveva frugato nel cassetto e aveva schiacciato la leva con incoscienza, senza un attimo di riflessione sul senso delle parole lette sulla carta che l’avvolgeva, senza saper collegare causa ed effetto, senza neppure pensare a una coincidenza.

Alla nascita di mio figlio, una parvenza di attenzione, anche se contraddittoria, era sorta in me, ma subito cancellata dalla mia superficialità di ritenere la sua nascita come una piccola increspatura sulla superficie dell’esistenza, o almeno della mia esistenza.

Continuavo a toccare quella leva, finché un senso di profondo piacere si impadronì di me. Quel breve e secco scatto ubbidiente al tocco delle mia dita, mi dava la vertigine di un’esperienza reale. Da qualche parte a me vicina o lontana qualcuno nasceva o moriva. Aveva senso chiedersi chi fossero costoro? Sapevo per certo che io generavo il movimento della vita, ne stabilivo l’inizio e la fine. Ero Dio.

E siete venuti voi al mondo e altri sono andati via. Anche Antonio è andato via, e anche dei giovani e anche dei bambini. Altri hanno iniziato la loro vita e l’hanno compiuta. Mia moglie, mio figlio, i figli di mio figlio e le loro compagne e i loro compagni. Io sono rimasto a vegliare sulle nascite e sulle morti. Per anni ho giocato a lungo. È stato come estrarre e riporre balocchi da una grande cassa, un sentir guizzare dentro di me scintille di gioie e di dolori. Mi sono sentito Dio e Morte.

 

La scatoletta è questa davanti ai vostri occhi sgranati dal terrore che io la tocchi e ne abbassi la levetta. Adesso sapete da cosa dipende la vostra vita o la vostra morte. Ma state pur tranquilli. Vi ho già detto che non è l’ultima scena di un film. Ho deciso di liberarmene, di uscire da questo gioco crudele. Avrei potuto consegnarla a uno di voi che adesso schiaccerebbe la levetta e prenderebbe il mio posto. So che nessuno è convinto che sia un ruolo da schiavi, che sia una fonte di infelicità profonda. Nessuno di voi conosce la disperazione di dover toccare la levetta e non sapere se sta decidendo la vita o la morte.

Come un cane alla catena, ogni giorno ci si sente più lontani dall’amore e dalla pietà, estranei alla stessa vita. Estranei al mondo, ciechi esecutori. Un potere che sfugge alla volontà. Lasciare cadere o evaporare piccole gocce sulla vastità del mondo, piccole vite o piccole morti, senza alcuna possibilità di trascinare questo potere verso la vita o verso la morte, ma che sia uno, solo e definitivo. Un potere che rende vittime e schiavi.

Un briciolo di pietà verso me stesso mi ha spinto a continuare il lavoro di Antonio. Allora era impensabile, ma adesso un piccolo congegno, un circuito che esegue calcoli di probabilità e fa scattare la levetta mi ha sostituito. Alla cieca, com’è tutto ciò che accade dentro l’uomo, com’è la vita. Paura e piacere, gioia e dolore, amore e odio. E giungerà all’improvviso il secco schioccare del clic. All’improvviso, da adesso in poi, anche per me.

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