Beatrice Borroni, Cambio, 2012

Qualcuno che mi chiami Miriam

Ecco il giornale e il resto. Arrivederci, Miriam.

Lui mi chiama così. Vorrei ricordargli che non è il mio nome. Non mi dispiace che mi chiamino Miriam ma non è il mio nome. Me lo ripeto ogni giorno. Anche se l’ho voluto, se ho fatto di tutto perché non mi chiamassero più con il mio nome, ci tengo a non dimenticarmi come mi chiamo per continuare a vivere dentro di me un’unica vita alimentata da due vite.

 

Prendo il giornale che ho acquistato e le monete che Carlo mi lascia scivolare nel cavo della mano. Mi giro per andarmene. Lo faccio di scatto ed è troppo. Oscillo paurosamente sui tacchi. Le caviglie mi reggono ma mi si piegano le ginocchia e il bacino, m’inclino in avanti e poi a destra a sinistra e indietro finché non riprendo equilibrio allungando in avanti le braccia. Mi raddrizzo. Un sorriso imbarazzato mi attraversa  gli occhi. Cerco di assumere un’aria indifferente e mi avvio verso l’auto. Lo so che quei tacchi troppo alti mi rendono difficile muovere i passi. Ma sono i tacchi con i quali lei camminava, sono le sue scarpe. E il suo passo, quando indossava quelle scarpe, mi lasciava senza parole, tanto erano selvagge le cadenze delle anche, i movimenti del suo corpo, il fluttuare dei lunghi capelli che ondeggiavano come carezzati dalla luce. Devo semplicemente abituarmi – mi dico. Devo apparire come lei. Devo camminare e cercare disperatamente che qualcuno ammiri il mio incedere come io ammiravo il suo. Dentro di me so bene che è quasi impossibile. Ma devo tentare.

Fisicamente ci assomigliamo molto, stesso tipo di pelle, stessa corporatura, stessi fianchi, stesso colore dei capelli. Da quando porto il suo nome li ho leggermente schiariti. Adesso sono colore del miele, stessa consistenza, stesse pieghe. Non che mi importi molto, ma se qualcuno dimostrasse per il mio corpo la stessa ammirazione che io provavo per il suo, almeno metà del mio intento potrei considerarlo riuscito. L’amo ancora, questo è certo. E finché l’amo non potrò mai dimenticarla. Ed è questo il mio intento. Non chiudere il ricordo dentro un cassetto da aprire in qualche occasione di malinconia. La malinconia non genera ricordi, genera rimpianti per qualcosa che si è perduto. Io non l’ho perduta. Lei è qui dentro di me e intorno a me. Dentro mi appartiene, intorno ne sento le carezze. Sono i suoi vestiti a carezzarmi, l’imitazione che faccio del suo essere di fronte agli altri, il suo sorridere, il suo gesticolare il suo parlare. Sensazioni che mi scendono dentro, lentamente, seguono l’andamento del sangue fino al cuore e poi fin sulle labbra, fin sui capelli, nel palmo delle mani, nelle caviglie, lungo le gambe sino al sesso. Ogni giorno. Ogni giorno che indosso i suoi abiti, ogni giorno che mi trucco come lei davanti allo specchio, ogni giorno che parlo con la sua voce ed esprimo agli altri idee che so essere nostre, nate da un dialogo intimo e serrato tra lei e me.

Non mi trucco in camera da letto né nel bagno. Il momento del trucco non è un momento rilassante. C’è sempre il panico che mi assale, mi innervosisce. Da tempo ho deciso di truccarmi nello studio, quell’ampia stanza una volta ingombra di libri e fotografie, un divano, due poltrone, una scrivania di legno massiccio. Ho sgomberato tutto, ho montato quattro spootlight sul soffitto puntati verso il basso, verso l’angolo in fondo alla stanza per lasciare tutto il resto in ombra. Ho tolto anche le foto alle pareti che ritraevano me e lei, ma non insieme, come un presagio, come solitudini gridate nell’eco di un tempo passato.  Due pareti sono rimaste vuote e opache. Alle altre due ad angolo ho affisso specchi ampi e alti sino al soffitto. Entrando nella stanza, di solito non porto nulla addosso, due figure si stagliano negli specchi, convergono fra loro: una mi viene incontro mentre l’altra, lei io?, mi cammina a fianco. La prima guarda dritto nei miei occhi, come se volesse scrutare la mia anima, l’altra compie i miei stessi passi con lo sguardo perduto in un orizzonte infinitamente lontano. Mi seggo sullo sgabello che ho disposto, con calcolo esatto, al centro della mediana ideale dell’angolo, proprio sotto i fasci di luce che convergono in quel punto. Adesso mi è chiaro che la figura che mi sta seduta di fronte sono io e mi rimprovera, le si legge in viso, il mio tradimento, il mio attaccamento all’altra. L’altra, che vedo con la coda dell’occhio, la guarda fissamente, annoiata e addolorata da questo mio caparbio tentativo mattutino di liberarmi di lei. Ma è solo un attimo. Appena inizio a cospargermi il viso di crema idratante, subito assorbita dalla pelle, e poi il correttore sugli zigomi e il fondo tinta e il mascara e il rossetto sulle labbra, lo sguardo che mi sta di fronte si addolcisce nel languore della nuova immagine che sta apparendo. E l’altra figura, quella al mio fianco, comincia a splendere nei colori di un viso che rinasce ogni giorno. Ogni giorno perfetto, ogni giorno uguale.

Mi alzo. Sono ancora senza nulla in dosso. I tacchi alti mi slanciano il corpo. Mi avvio verso la porta per uscire dalla stanza. Non vedo più la figura che mi stava di fronte. L’altra invece, cammina insieme a me, fa i miei stessi passi, mi segue finché ho lo specchio a fianco. Varco la porta. Spengo la luce. Sento che la figura dietro le mie spalle, quella che mi stava di fronte, mi segue ancora con uno sguardo triste nello spazio dilatato dal buio. Mi allontano. Indosso gli abiti di sempre, gli abiti di Miriam. Anche oggi andrò verso qualcuno, qualcuno che mi chiami Miriam.

(Racconto pubblicato sul numero 102 de La Masnada)

 

  1. Gabriella Barattia scrive:

    Racconto carico di tensione davanti all’enigma che ci si svela via via, davanti alla complessità psicologica del personaggio. Anche nella prosa affronti temi scomodi, che rappresenti in modo acuto e profondo. Abile narratore oltre che poeta.

  2. tinamannelli scrive:

    Stupendo racconto, molto intenso, si sta col fiato sospeso. Una donna, due figure. Una
    vera ossessionata dall’altra se stessa. Lei vorrebbe essere perfetta come si immagina
    e cerca in tutti i modi di apparire come immagina l’altra. Molto interessante, argomento difficile, da psicanalista. Mi è piaciuto molto, questo è il tuo primo racconto che leggo e devo dire che oltre ad essere un bel poeta scrivi divinamente.

  3. jennifer otero scrive:

    Bellissimo racconto

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