Recensione a “Formule dell’Anima” di Martina Brunetti dal blog Letterando con Marty

Martina Brunetti

.L’addio

Martina Brunetti 

S’allontanano i treni lucidi di pioggia

coprono con sudari di nebbia la distanza

che si spalanca dietro l’ombra

dell’ultimo vagone.

.

Dicono addio ai treni

sui marciapiedi piccoli cipressi

carichi di malinconia,

scuotono lente cime,

chinano i rami intorno al cuore.

.

E tu, amore, al finestrino

sciogli nel vento il nero dei capelli

rigano gli occhi d’uno sguardo perso

tremolii di lacrime, la bocca

muove le labbra come ali smorte.

.

Ci vedremo, ti grido

con lo stridore lamentoso del gabbiano

smarrito nella nebbia.

Ci vedremo, sospiro con la stanca

carezza di un addio.

.

Lucidi di pioggia i treni

tra i sudari di nebbia s’allontanano.

S’allunga silenziosa la distanza

dietro l’ombra incerta

dell’ultimo vagone.

.

Buonasera cari amici lettori e care amiche lettrici,

oggi sono ufficialmente pronta a parlarvi di un nuovo libro. Possiedo questa copia da qualche settimana ormai, ma lo studio e la preparazione di quello che è stato il mio penultimo esame ha fatto sì che io leggessi pochissimo e quel pochissimo che sono riuscita a leggere non è riuscito ad appassionarmi più di tanto.

Poi, l’undici Agosto, mi arriva una mail in cui l’autore di questo libro mi proponeva di leggere la sua raccolta.

Non accetto mai romanzi, mentre mi piace molto ricevere per posta le raccolte di poesie.

Vi spiego perché:

Ho studiato in un Liceo Scientifico Tecnologico, io che non sopporto la matematica. Le uniche ore in cui riuscivo a respirare erano le ore di Lettere, ma anche qui c’erano dei momenti che proprio non riuscivo a tollerare: le lezioni di poesia. I Professori, a causa dei programmi scolastici, sono costretti ad insegnare a leggere la poesia come se questa fosse un quesito matematico; tanto che, di solito, dopo la spiegazione del testo attraverso la parafrasi e la terribile ricerca delle figure retoriche c’erano sempre, nelle care antologie, quelle benedette domande di produzione, della serie:

“Qual è l’argomento principale della poesia?”

“E’ possibile rintracciare nel testo delle parole chiave o dei versi che ricordano il percorso biografico dell’autore? Se si quali?” [E chissà perché la risposta era sempre si]

“Quali sono le principali figure retoriche? Produci un diagramma ad albero sul quaderno e discuti la struttura del testo con il tuo compagno di banco”…

Mamma mia che astio.

Odiavo e disprezzavo le ore di poesia perché mi ricordavano maledettamente la matematica…e non so se si è intuito, ma io odio la matematica.

Poi mi sono diplomata e ho iniziato a leggere delle raccolte di poesie senza tutto il procedimento matematico di smembramento del testo in figure retoriche; senza contare di quante sillabe erano composti i versi; senza rispondere a nessunissima domanda al di fuori del “Ti è piaciuta? L’hai capita?”.

E allora ho iniziato a pensare alla poesia non come espressione di un linguaggio forbito, ma come espressione dell’anima. Se un autore decide di inviarmi la sua raccolta è perché vuole comunicare qualcosa e per questo motivo accetto volentieri di leggere e recensire libri di questo genere.

Sono una ragazza curiosa e molto spesso la curiosità mi ripaga. Come in questo caso.

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“Alla prima lettura può apparire ostico, perché usa immagini e parole non usuali, ma verrete anche voi avvolti dalla sensualità che traspare dalle sue parole: fate il silenzio dentro di voi, leggetelo a voce alta, possibilmente in un giardino, in un bosco o in un prato, rileggetelo ancora finché le sue parole diventeranno parte di voi e allora vedrete i lungo Po deserti, le strade di Caltanissetta, lo squallore delle periferie, la natura di cui è abile “pittore di parole”, sentirete il profumo della terra, il vento che scuote gli alberi, il sale sulle labbra…e tornateci ancora e ancora finché i suoi versi vi apparterranno e qualcosa dentro di voi sarà mutato, forse per sempre.”

Nella presentazione del libro, Gabriella Barattia descrive la poesia di Marcello Comitini utilizzando queste precise parole. Come darle torto…
Ho letto l’intera raccolta (ovviamente suddividendo la lettura in uno spam di tempo molto lungo, dal momento che non mi piace leggere tante poesie tutte insieme e una di seguito all’altra) e la sensazione che mi ha dato è stata simile a quella che avrei provato se, nel cuore della notte, mi avessero versato addosso, con violenza, un secchiata di acqua gelida. Alla prima lettura sono rimasta interdetta: le parole erano difficili; le tematiche affrontate erano tante; la lettura era veloce; il ritmo incessante anche a causa dei continui enjambement presenti in tutti i testi, in tutti i versi. Mi sembrava di non prendere fiato, il cuore batteva forte e insieme, di fronte ai miei occhi, si dipingevano quei paesaggi e quelle atmosfere. E’ stato uno shock.
Poi ho letto la prefazione, o lettura ad alta voce, e ho capito.
Ho riletto l’intera raccolta e nelle poesie ho rivisto l’autore, ho visto i luoghi della sua memoria e ho percepito le sue sensazioni ed è stata un’esperienza surreale.

Questa è vera poesia.
La sensazione che si trasforma in testo, in parole fissate su carta, che nel momento in cui vengono pronunciate rievocano la sensazione medesima e la diffondono nel lettore.
Leggete la poesia ad alta voce e la poesia sarà vostra.

Tramonto

L’incarnato del cielo in agonia
velato a sera dalle nuvole
s’imporpora.

La notte sparge il volto

e silenziosa
si nutre del tramonto.

Così nella mia sera la tua bocca

s’imporpora di baci
e la notte lucente dei tuoi occhi
nutre i miei sogni.


Un’esperienza toccante.
Inoltre ho voluto intervistare Marcello Comitini. Non mi capita spesso di conversare con un poeta e ho colto  questa occasione per fargli qualche domanda. Spero possa interessarvi e spero che questa recensione vi abbia incuriosito:

  1. Scrivere poesie non è semplice ma forse un evento, una persona o una situazione particolare può generare una voglia irrefrenabile di esprimersi attraverso questo genere. Per te è stato lo stesso? Quando hai iniziato a scrivere poesie?

Mio padre era un appassionato dei grandi classici del passato e la sua più profonda gioia era leggerli a voce alta nel giardino incantato della mia casa di Catania. Lui leggeva a un pubblico immaginario. Io lo stavo ad ascoltare e in me sorgeva la voglia di conoscere quelle parole, farle mie, ripeterle nel mio linguaggio. Come dice Ungaretti “non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello del Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli.” Era il canto che sentivo nella voce di mio padre, rauca e bassa come la mia. A quel canto ho iniziato a scrivere, con l’imperizia e la voglia impetuosa di un quindicenne, più per emulazione, almeno così mi sembrava, che in conseguenza di una volontà precisa. Intanto si facevano strada in me tutte le urgenze e le contraddizioni proprie di un giovane: amori, sogni, entusiasmi e scoramenti, rabbie, bisogno di giustizia. E soprattutto prendevo coscienza dell’attrito che esiste tra il rumore della vita e il silenzio dell’essere. Nel 1974, a ventinove anni, ho deciso di pubblicare la prima raccolta di poesie con un editore palermitano. Era un libro pieno di versi alcuni dolci e innamorati, altri spigolosi di condanna e di denuncia contro le ingiustizie e la povertà. Poi, per lunghi anni, ha prevalso la necessità di lavorare per sostenere la mia famiglia. Per tutti questi anni non ho scritto: mi sono limitato a recuperare il silenzio dell’essere attraverso le letture e le traduzioni che portavo avanti rubando il tempo al sonno, dal momento che non mi era concesso rubarlo al lavoro. Così ho tradotto Philippe Soupault e Baudelaire, Raissa Maritain, Albert Lozeau e altri. Infine mi si è presentata l’occasione per piantare tutto e dal 2004 ho ripreso a scrivere, pubblicando nel 2011 “Formule dell’Anima”.

  1. Nelle interviste agli autori di romanzi, si è soliti chiedere quale sia (se esiste) il momento della giornata più adatto alla scrittura. C’è chi scrive un’ora al giorno; c’è chi scrive solo di notte; chi scrive solo in cucina. E per la poesia? Qual è il momento migliore per scrivere?

Amo definire lo scrivere poesia il racconto, interrotto e spezzato, di un uomo, della sua vita, delle sue emozioni e dei pensieri che attraversano il suo cammino. Eventi, situazioni e persone certamente suscitano sentimenti, riflessioni, impressioni che si vorrebbe fossero indimenticabili. E allora l’impulso a scrivere, come a dipingere, è scattare una istantanea nell’attimo in cui la scintilla del cuore (o della mente) illumina la realtà circostante, o viceversa, quando il rumore della realtà scaglia, nel suo attrito con l’essere, una scintilla al cuore (o alla mente). Questo è l’input primigenio, l’atto dell’includere nei miei appunti personali l’immagine intravista nella fuggevolezza del lampo illuminante. Ma a ben riguardare, quando l’animo si è placato e l’evento scatenante si è allontanato dalla sua urgenza, avverto che i dettagli di quella realtà che avevo scorta rischiano di svanire, di perdere quella vitalità che aveva attratto la mia attenzione. È necessario tornare sull’immagine, ripensare all’istantanea conservata nei miei appunti e renderla leggibile nel tempo. Inizia allora un lavoro di focalizzazione attraverso un rimuginare dentro di me parole musicalità senso di ciò che ho sentito voler dire. Ed è un lavoro che non si svolge in un momento preciso ma quando si avverte, come dicevo sopra, l’attrito tra il rumore della vita e il silenzio dell’essere. Qualunque sia il posto, qualunque sia il momento, si affacciano dentro me le prime parole, quelle che mi sembrano più significanti per esprimere ciò che provo. Metto giù, nero su bianco esclusivamente al computer, perché detesto il segno grafico della mia scrittura manuale e posso modificare velocemente senza cancellature e segni mnemonici. A volte appena in piedi la mattina, a volte sino a notte fonda. Ma sempre quando c’è il silenzio intorno a me.

  1. Il tuo poeta preferito?

Sono due i poeti che ho amato sin da ragazzo. Il primo è Charles Baudelaire di cui ho anche tradotto la sua opera poetica “Les Fleures du mal”. Mi sono innamorato di lui quando, appena quindicenne, ho letto per la prima volta la poesia Il Balcone, dove Baudelaire descrive in una strofa il mestiere del poeta: “Ho l’arte di evocare i momenti felici, / e rivivo il passato stretto fra le tue ginocchia. / Perché cercare altrove languide bellezze / altrove che nel tuo corpo e nel tuo cuore soave?/Ho l’arte di evocare i momenti felici!” E da allora non l’ho mai più abbandonato. Ancora oggi lo leggo con la stessa emozione della prima volta.

L’altro non è un poeta alla moda (esistono poeti alla moda? qualche volta purtroppo esistono) ma è stato, ed è ancora secondo me, un maestro di vita e di cultura: Cesare Pavese, in particolare nella sua opera “Dialoghi con Leucò”. Come si sa, Cesare Pavese è più che altro un romanziere e l’opera da me citata non è in versi. Ma in tutte le sue opere non c’è infingimento, nessuna posa da letterato, nessuna invenzione che non sia costata cara all’autore. Insomma, in ogni sua opera c’è “carne e sangue”. Pavese ha scritto un canto altissimo dell’uomo e della natura, essendo un poeta che, “con un semplice nome [racconta] la nuvola, il bosco, i destini”. Cito un passo a caso, tratto dal dialogo “Schiuma d’onda” : “Una donna varcò questo mare, una mortale, che visse sempre nel tumulto – forse in pace. Una donna che uccise, distrusse, accecò, come una dea – sempre uguale a se stessa. Forse non ebbe da sorridere neppure. Era bella, non sciocca, e intorno a lei tutto moriva e combatteva.”  Non sono versi, eppure ciascuna frase è resa con ricchezza di immagini e con un ritmo da cui è impossibile prescindere nel leggere.

  1. La maggior parte degli autori che mi contatta per propormi i loro libri sono poeti. Questo mi fa pensare che la poesia sia un genere abbracciato da molti anche se, in realtà, siamo abituati ad entrare nelle librerie ed essere sommersi da romanzi. Per trovare il reparto dedicato alla poesia si fa molta fatica perché spesso questo genere è segregato in un angolino nascosto tra gli scaffali. Cosa ne pensi del mercato editoriale? C’è ancora spazio per la poesia?

Entrando per la prima volta in una ampia libreria romana aperta di recente, dopo aver cercato minuziosamente e inutilmente il reparto Poesia ho chiesto a un commesso.  Si è gentilmente offerto di accompagnarmi e mi ha condotto lungo una doppia fila di scaffali in fondo alla quale vi era una porta con la scritta “Toilette”.  Gli striminziti loculi – del genere libreria Billy di Ikea – stavano a destra di quella porta, quasi al buio. Non è un caso raro, come lei ha giustamente fatto rilevare. In un’altra libreria, aperta nel complesso dell’Auditorium di Roma, ricca di bellissime pubblicazioni sull’arte pittorica e sulla musica, cercare un libro è come eseguire una preghiera musulmana: occorre inginocchiarsi abbassando il capo sino a terra, perché i libri di poesia, di norma col dorso assai esiguo e quindi illeggibili se non a diretto contatto con la pupilla, sono collocati nello scaffale più basso. Ci sono alcuni motivi di questa collocazione infelice, la matrice dei quali è esclusivamente di natura economica ed è tautologica nel suo mordersi la coda: la poesia non si vende perché non attrae come un romanzo; la poesia non attrae perché non c’è la cultura del leggere poesia; non c’è la cultura del leggere poesia perché l’editoria non la impone; l’editoria non la impone perché la poesia non vende come un romanzo. Fine. Poi ci sono altre ragioni. I pochi lettori che acquistano poesia (pochi che acquistano ma tantissimi che leggono) amano leggere esclusivamente i poeti in qualche modo conosciuti, quelli che il mercato editoriale impone. Diffidano terribilmente degli sconosciuti, giovani e più raramente meno giovani anche in considerazione che spesso coloro che scrivono poesie (poeti?) creano una frattura fra il loro poetare, espressione di esperienze personali e a volte individualistiche,  e il mondo dei lettori sempre alla ricerca di una poesia che parli al loro cuore, ai loro sentimenti, liberatoria della condizione umana, non solo quella dei grandi sistemi della sperequazione e dell’ingiustizia economica, ma quella del quotidiano, della donna tradita, dell’uomo abbandonato, dell’alienato dal lavoro, di colui o colei che si sente sommerso dal grigiore della città, dalla monotonia della ripetitività.

  1. Qualche consiglio per i giovani poeti?

Se qualcuno, quand’ero giovane poeta, mi avesse dato dei consigli, l’avrei ascoltato? Ne dubito fortemente (a meno che avessi trovato qualcuno che mi avesse consigliato di resistere, di non accettare un lavoro che avrebbe comportato la rinuncia alla libertà di scrivere). Un giovane poeta si sente e vuole essere un innovatore, un rivoluzionario del poetare preesistente e attuale. Guai se non fosse così. Ma cercare pareri, confrontarsi, discutere, litigare aspramente con i coetanei e, semmai fosse fortunato, con poeti più anziani di cui stima il lavoro, sarebbe una strada privilegiata per aggiungere ricchezza alla propria interiorità. E questo anche se personalmente ritengo che una simile pratica comporti un grosso rischio di adeguamento a schemi preconfezionati. Il livello di sperimentazione poetica è tale che anche il verso destrutturato risponde ormai a schemi rigidi, camuffati da libertà di espressione. Sono fermamente convinto che un poeta non deve lasciarsi influenzare, non deve seguire questa o quella moda, ma avere chiaro davanti a sé la necessità di costruire un linguaggio personale, che meglio risponda alle proprie esigenze di musicalità e concettuali. Occorre che il giovane poeta presti molta attenzione alla sonorità della parola, leggendo e rileggendo ad alta voce per sentirne l’armonia, gli echi, i rimandi, consapevole, momento per momento,che il proprio essere è in continua evoluzione nel percepire e rielaborare la realtà.

A un giovane poi, che insistesse a chiedere consigli sulla strategia da adottare per giungere alla pubblicazione con editori, rifiuterei qualsiasi risposta, perché obiettivo del poeta non deve mai essere la pubblicazione ma la diffusione del proprio pensiero. E per la diffusione esistono tantissimi strumenti, dai classici reading in occasione di manifestazioni (che si vanno sempre più diffondendo) dedicate alle poesie, alla pubblicazione sui social network. Il poeta deve rivolgersi alla gente comune, a coloro che leggono i romanzi, a coloro che ascoltano musica, a coloro che vedono film e fuggono davanti alla poesia. Scopo del poeta è farsi amare. Ecco il consiglio che posso dare a un giovane che, in quanto scrittore di poesie già ama: farsi amare. E lasciare che gli scoramenti facciano parte del suo crescere.

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Ringrazio  Marcello Comitini per la sua disponibilità e per avermi dato la possibilità di conoscere le sue poesie. E grazie anche a voi, cari amici lettori, per aver letto il mio articolo. A tutti gli amanti della poesia auguro la curiosità di provare a leggere poeti meno conosciuti di quelli onnipresenti nelle antologie scolastiche; ai non amanti della poesia consiglio di leggere questo libro, sono sicura che a lettura terminata cambierete idea e prospettiva.

  1. Gabriella Barattia scrive:

    Ringrazio Martina che ha trovato illuminante la mia prefazione. Sono felice di essere riuscita a farti entrare dentro una persona complessa come Marcello Comitini. Alla intensità della sue poesie si deve il mio entusiasmo nei loro confronti.

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